Mario Sironi
Sassari 1885 – Milano 1961
La vicenda biografica di Sironi ben si accompagna alla storia d’Italia nella prima metà del Novecento, spesso ricordato solo per il suo legame con il Fascismo, egli è in realtà un’artista complesso, che concepisce l’arte non solo come mezzo espressivo personale, bensì come concreto strumento per rinnovare la società.
Nato a Sassari ma cresciuto a Roma, frequenta a partire dal 1903 la Scuola Libera di Nudo e lo studio di Balla, dove conosce Severini e soprattutto Boccioni; con quest’ultimo intraprenderà un viaggio a Parigi e in Germania, nel 1908, rimanendo colpito dai capolavori del Louvre più che dall’arte contemporanea.
Nel 1914, trasferitosi a Milano, supera la pittura divisionista e aderisce al Futurismo, incentrando la sua riflessione sulla civiltà urbana e industriale.
Gli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale, cui partecipò come volontario, sono segnati da un progressivo superamento della pittura futurista, verso un approccio più metafisico, con forme via via più solide e monumentali, come appare dalle numerose Periferie.
Nel 1920 firma con Dudreville, Funi e Russolo il Manifesto contro tutti i ritorni in pittura, che contiene in nuce le formulazioni caratterizzanti l’esperienza del gruppo Novecento, di cui è fondatore, nel 1923 a Milano, insieme a Dudreville, Funi, Bucci, Oppi, Malerba e Marussig, con il sostegno critico di Margherita Sarfatti, conosciuta collaborando come illustratore al «Popolo d’Italia».
Nonostante la monumentalità e le tematiche tipicamente novecentiste, quali il nudo, il paesaggio, il mito, le opere di Sironi dei secondi anni Venti sono segnate da un linguaggio materico, con deformazioni e contorni spessi, in cui la pittura è fortemente espressiva.
Dal 1931 fa opere dalla pennellata sempre più violenta e sommaria, con lunghe strisciate di colori scuri, squarciate da bagliori di luce; i quadri sono molto grandi poiché incomincia a rendersi conto che la tela, da sola, non ha la necessaria forza comunicativa.
Nel 1932 pubblica sul «Popolo d’Italia» l’articolo Pittura Murale, in cui propone di esprimere il classicismo attraverso il recupero di tecniche tradizionali, quali l’affresco, nel 1933 redige con Carrà, Funi e Campigli, il Manifesto della Pittura Murale.
Gli anni del muralismo lo vedono protagonista del tentativo di dar vita ad un’estetica fascista, che potesse coniugare modernità e tradizione e, soprattutto, che fosse capace di comunicare con il popolo in modo diretto ed efficace. In questi anni si interessa anche di scenografia, di progettazione architettonica e sperimenta le tecniche del mosaico e del bassorilievo, in numerose opere di committenza pubblica, si pensi al mosaico per il Palazzo di Giustizia a Milano.
Con la caduta del Fascismo vengono meno le prerogative della pittura murale e Sironi vive un momento di profonda crisi, ripiega dunque su una riflessione di stampo metafisico a partire dal 1942, con opere molto eterogenee, in cui si alternano toni nitidi e cupe spatolate, manichini e atmosfere vuote.
Nel dopo guerra è oggetto di un forte isolamento e tenta di far rivivere la struttura a scomparti della pittura murale attraverso una serie di Composizioni, con una tecnica pastosa ed espressionista, in cui le forme sono erose: sfocati ricordi di una stagione carica di ideali.
Quasi dimenticato in patria ottiene grande successo all’estero.
Muore nel 1961.
Le opere di Sironi sono molto difficili da datare, egli stesso fornisce date sbagliate, in sprezzo delle formalizzazioni critiche, spesso riprende e modifica le sue opere a distanza di anni falsando l’evoluzione della sua arte, poiché per lui il quadro è avulso da qualunque contingenza, è una creazione dello spirito, eterna, fuori dal tempo.