Madre e figlio

1934
olio su tela
90×115

Entrato a far parte della raccolta maceratese di Palazzo Ricci nel 1982, il dipinto Madre e figlio s’inserisce perfettamente nella produzione del decennio 1930 – 1940 dell’artista piemontese.
Le molteplici esperienze e le fondamentali frequentazioni negli anni che precedono la realizzazione della tela collocano Carrà al centro del dibattito estetico e artistico del periodo: alterni soggiorni parigini, nei quali ha modo di avvicinarsi sia all’arte francese sia a quella internazionale e di conoscerne i massimi esponenti d’inizio secolo, la militanza nelle fila dei futuristi della prima ora, l’esperienza metafisica e l’incontro con Giorgio de Chirico, la collaborazione con Mario Broglio e la rivista “Valori Plastici” e infine i contatti con la compagine di “Novecento”, dalla quale mantiene comunque una propria autonomia.
Sul versante della scrittura, sono anni in cui Carrà dà alle stampe i celebri saggi Parlata su Giotto, Paolo Uccello costruttore e, poco più in là nel tempo, la Pittura metafisica; quasi a voler comporre una sorta di diario intellettuale in stretta connessione al suo lavoro pittorico.
Madre e figlio dunque, esposto nel 1936 alla XX edizione della Biennale di Venezia, si colloca a cavallo fra la cifra stilistica novecentista e reminiscenze metafisiche, senza trascurare l’ascendente dei “primitivi” italiani quali Giotto, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio, nonché taluni chiari rimandi, nelle forme e nei volumi dei protagonisti, a modelli di picassiana memoria degli anni Venti. L’artista offre un’interpretazione singolare dell’iconografia della maternità, priva di quell’intimismo che solitamente la caratterizza, poiché più interessato alla disposizione delle figure e degli oggetti e ai loro rapporti reciproci e con lo spazio circostante.
Carrà procede nella costruzione dello spazio attraverso la giustapposizione di rettangoli contigui: il tappeto a righe bianche e rosse, la quinta della parete, la ringhiera e i palazzi che si intravedono oltre la finestra. Nel dipinto trovano posto un bastone colorato, analogo a quello raffigurato in Gentiluomo ubriaco (1916), una palla e una natura morta con brocca e ciotola, evidente rimando alla pregressa stagione metafisica.
La monumentalità della composizione e l’impiego di un ductus materico piuttosto secco e arido, inoltre, rinviano ai coevi impegni carraiani nell’ambito dei grandi cicli decorativi parietali. Al 1933, infatti, risale la redazione del Manifesto della pittura murale, siglato insieme a Mario Sironi, Massimo Campigli e Achille Funi. Contestualmente, Carrà realizza a Milano, nel 1933 e nel 1936, i murali per la V e la VI Triennale e nel 1938, dopo lunga gestazione, termina gli affreschi per il Palazzo di Giustizia.