Studio di carattere
1921
olio su tavola
37×27
A distanza di un anno dalla redazione del Manifesto Contro tutti i ritorni in pittura e contestualmente alla formazione del primo gruppo “Novecento”, Leonardo Dudreville realizza questo ritratto, noto anche come Ritratto di tenore e ufficiale o come Testa d’uomo, espressione di una pittura che si fa sempre più fredda, analitica nella narrazione realistica e caratterizzata da accenti crudi.
L’opera, entrata nella raccolta del Museo Palazzo Ricci nel 1984 e della quale esiste una litografia del 1920, appare per la prima volta all’esposizione milanese del novembre 1922 presso la Bottega di Poesia, riscuotendo subito il plauso di Margherita Sarfatti, nota scrittrice e critica d’arte – il cui salotto nel capoluogo lombardo nel corso degli anni Venti era frequentato da molti intellettuali e artisti –, che ne evidenzia “l’oggettività quasi fotografica e la coloritura liscia e comune, a cui giunge Leonardo Dudreville nei suoi Ritratti. Anche se intitola Studio di carattere la faccia di un grasso ridente giovanotto bonaccione, non è il carattere che studia in realtà, ma delinea con precisione inesorabile ogni linea e piega del volto”
Il linguaggio dell’artista, basato principalmente su un realismo oggettivo, sembra dialogare tanto con alcuni esponenti della Neue Sachlichkeit come Otto Dix, quanto con quelli dell’arte fiamminga come Jan van Eyck.
Nel ritratto Dudreville procede verso un’oggettività dettagliata e nitida, in cui tutti i particolari vengono fissati ed esaltati nella loro unicità. L’imponente volto del protagonista, il cui sguardo incastonato dal monocolo sembra dirigersi altrove, occupa gran parte della superficie pittorica, l’artista ne indaga ogni minima piega, ruga, turgore, finanche a soffermarsi sulla chioma caratterizzata dal morbido ciuffo al centro della fronte. Analoga impostazione la ritroviamo anche nelle tele coeve raffiguranti il pittore Aloi (1921) e Marcella (1923), nelle quali i protagonisti ancora una volta occupano gran parte dello spazio, lasciando intravedere parzialmente lo sfondo, portando l’attenzione dello spettatore ai tratti dei volti dei due effigiati. È ancora una volta la Sarfatti, presentando Dudreville alla Biennale veneziana del 1924, a esaltarne la potenza della sua pittura: “Attraverso i solchi dei volti, nelle sagome delle cose, negli spigoli degli stessi oggetti, il Dudreville scruta inesorabilmente l’espressione e il carattere, e usa la pittura quale strumento di scarnificatrici psicologie”.