Quattro nel Novecento
Primo Conti, Francesco Messina, Diego De Minicis e Betto Tesei
a cura di Roberto Cresti
Palazzo Ricci, Macerata
16 luglio al 2 ottobre 2022






Photo by Luna Simoncini
Video by Alia Simoncini
BIOGRAFIE
Primo Conti (Firenze, 16 ottobre 1900 – Fiesole, 12 novembre 1988)
Primo Conti attraversa quasi interamente il Novecento, vivendone i progressi e le tragedie, cogliendone i sussulti, le Avanguardie e i movimenti artistici, nel segno di un’idea e di un sentimento personalissimi della pittura. È proprio questa sua sensibilità, unita allo studio, agli incontri e ai confronti con artisti viventi e Maestri del passato, che lo porta a elaborare in modo originale e coerente un’opera che si sviluppa per quasi ottant’anni.
Il suo apprendistato inizia infatti all’età di dieci anni, quando decide di frequentare la scuola privata di disegno diretta da Eugenio Chiostri, che incoraggerà il talento del giovane allievo verso un’espressività fondata sull’osservazione della realtà e sullo studio della tradizione. Il fatto che segna la sua precocissima adolescenza è la visita all’Esposizione di Pittura Futurista organizzata da «Lacerba» a Firenze nel 1913; qui ha modo di conoscere Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Ardendo Soffici e Carlo Carrà, incuriositi dalla sua età e interessati ai commenti del brillante tredicenne. Un altro fatto decisivo sarà poi l’allestimento della personale di scultura di Umberto Boccioni in via Cavour, a cui Primo Conti partecipa in prima persona e dove ha modo di conoscere Boccioni stesso, verso il quale nutrirà sempre una profonda ammirazione. È tuttavia Soffici, tra le varie personalità che ha modo di incontrare in questo periodo, a suscitare in lui il più acceso entusiasmo.
Fondamentale, insieme allo studio dei Maestri, è il contatto diretto con la natura, che per Conti è soprattutto il mare e la campagna intorno Viareggio, dove in estate è solito villeggiare insieme alla famiglia.
Il 1917 è l’anno della sua piena adesione al Futurismo: la peculiarità dei dipinti futuristi di Conti di questo periodo è l’attenzione per il quotidiano e la realtà popolare. Gli elementi dell’estetica futurista si innestano così in una originale sintesi, tra la naturale sensibilità per il colore dell’artista e la ricerca della struttura essenziale dello spazio e dei volumi.
Finita la guerra si dedica alla riflessione e al confronto con la pittura Metafisica, alla quale riconosce il merito di «ridare all’oggetto l’unità di una forma che avevamo frantumato nelle esperienze del Cubismo e del dinamismo plastico». A partire dagli anni Venti si moltiplicano le esposizioni dei suoi quadri in Italia e all’estero, mentre la ricerca sulla forma e sul colore continua a contatto con i Maestri dell’arte italiana (Cimabue, Giotto, Piero della Francesca).
Nel 1929, invitato da Margherita Sarfatti, è presente alla II Mostra del ʻNovecento Italiano’. Dal 1941 è titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1945 acquista a Fiesole una villa quattrocentesca, che sarà il suo studio e il suo buen retiro per il resto della vita.
Francesco Messina (Linguaglossa, 15 dicembre 1900 – Milano, 13 settembre 1995)
Francesco Messina nasce in Sicilia da una famiglia molto povera che, nel 1901, tenta di imbarcarsi per l’America da Genova in cerca di una vita migliore ma è costretta a stabilirsi nel capoluogo ligure. Qui frequenta le scuole elementari e poi inizia a lavorare come garzone marmista. Fin dal 1910 frequenta però corsi serali di disegno, studia la storia dell’arte e cura l’acquisizione delle tecniche, così da essere accettato all’Accademia Ligustica di Belle Arti nel 1914.
Fin da subito il suo lavoro appare eseguito a regola d’arte, tanto da essere segnalato sui quotidiani locali, avviandolo presto a una rete di relazioni con l’ambiente intellettuale genovese e successivamente a un circuito più ampio di mostre. Riesce intanto, grazie a commesse ricevute dal Comune di Genova per opere di soggetto sia civile che religioso, a risollevare le sorti sempre grame della famiglia e, continuando nell’opera di promozione del suo lavoro, prende contatti con l’ambiente artistico romano.
Nel 1925 espone alla III Biennale di Roma e l’anno successivo partecipa a Milano alla I Mostra d’Arte del ʻNovecento Italiano’, curata da Margherita Sarfatti al Palazzo della Permanente, in occasione della quale conosce Arturo Martini, col quale si sviluppò un fertile benché teso rapporto. In quell’anno iniziano inoltre i viaggi e i soggiorni a Parigi dove frequenta Alberto Magnelli, Massimo Campigli, Giorgio De Chirico e Alberto Savinio. Nel 1929 è presente alla II Mostra del ‘Novecento Italiano’ avendo ormai un certo ruolo nella scultura italiana, il che l’avrebbe portato, dopo anni di intensa produzione e di mostre anche all’estero, a essere dichiarato, nel 1934, vincitore del concorso per la cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, della quale ricoprirà anche la carica di direttore dal 1936 al 1944.
Stretti sono stati i suoi rapporti con il vertice economico e politico dell’Italia negli anni Trenta, mentre come artista Messina si mantiene fedele all’essenza ‘classica’ dell’estetica novecentista. Passata la tragedia della Seconda guerra mondiale, attraversa un periodo di isolamento dovuto al ruolo che aveva rivestito nel regime fascista, che mette a frutto con una grande dedizione al lavoro, producendo una quantità di modellati di varie dimensioni.
Nel 1947 tiene una personale alla Galleria milanese Barbaroux, che rappresenta il suo ritorno sulla scena artistica nazionale e poi internazionale. In quell’anno stesso gli viene ridata la cattedra di scultura a Brera, da cui era stato sospeso. Nel lungo periodo che ebbe ancora a disposizione per lavorare, si rilevano diverse fasi ma una costanza di stile, nella quale appaiono, per via figurativa, tutte le tensioni artistiche del XX secolo.
Benedetto Tesei detto Betto (Jesi, 20 giugno 1898 – Jesi, 22 maggio 1953)
Benedetto Tesei, in arte Betto, vive la maggior parte della sua vita a Jesi, allontanandosi solo alcuni anni per coltivare la naturale inclinazione all’arte, prima a Urbino poi a Roma.
Mentre in Italia prendevano piede innovative teorie avanguardistiche, legate al mondo nuovo della macchina, esaltato dal ritmo frenetico della vita moderna magnificato da Filippo Tommaso Marinetti, nella cittadina marchigiana si continuava a prediligere quella pittura di stampo realistico che mai sarà dimenticata. In questo clima culturale si inserisce Tesei, divenendo un interessante testimone di quello spirito culturale che si costituisce dopo l’Unità d’Italia, in cui si continua a predicare una pura attrazione nei confronti del reale, facendolo divenire il concetto chiave di una poetica capace di ritrovare la forza e la bellezza nelle cose semplici del vivere quotidiano.
La formazione di Tesei ricalca quella della maggior parte degli artisti marchigiani, i quali ritengono che Roma possa rappresentare l’occasione di una seria crescita artistica. Il periodo trascorso nella Capitale segue, però, a una prima fase di formazione nelle Marche, durante la quale frequenta l’Accademia di Belle Arti di Urbino, ambiente in cui si gettano le basi del suo fare pittorico.
Nel 1926 Tesei ha il suo studio a Roma, ma qui si scontra con le difficoltà di inserirsi in un ambiente vivace e competitivo, al quale riuscirà comunque a prendere parte grazie allo studio continuo e alla dedizione alla pittura che non lo abbondonerà mai nell’intero corso della sua vita.
Alla morte del padre Aristide, nel 1932, i doveri familiari lo spingono a rientrare nella sua città natale per assumere le responsabilità che il ruolo familiare e la posizione sociale gli richiedevano. Nel 1934 sposa Gianna Pagliarani e proprio il ritiro nella vita familiare definisce una scelta stilistica, che matura in rapporto con personalità artistiche locali che condividono l’attenzione per il vivere quotidiano. Con alcuni di questi artisti, Tesei partecipa a un’intensa attività espositiva e prende parte a diverse mostre fino a ricevere, nel 1940, l’invito per partecipare alla XXII Biennale d’Arte di Venezia.
Muore nel 1953 nel suo palazzo, lasciando la dimensione spaziale e sentimentale che si era creato per trasformare in universali i semplici oggetti della vita, le persone che si è soliti incontrare (prima di tutto noi stessi) e i paesaggi di sempre.
Diego Muzio Vedasto De Minicis (Petriolo, 7 febbraio 1913 – Filonowo, 22 agosto 1942)
Una spiccata sensibilità, una precoce capacità di osservazione, insieme alla fascinazione per il lavoro del pittore Ciro Pavisa, che osservava dipingere nel Santuario della Madonna della Misericordia di Petriolo, avviano Diego De Minicis al disegno.
Egli si forma dapprima presso la Regia Scuola Industriale d’Arte applicata ‘F. Corridoni’ di Pausula (come era chiamata al tempo Corridonia), per poi trasferirsi nel 1927 a Pesaro dove frequenta la Scuola Professionale ‘F. Mengaroni’. Nel 1929 parte alla volta di Milano: qui consegue la maturità artistica nel 1933 al Regio Liceo Artistico di Brera e, l’anno successivo, si diploma in scultura alla Regia Accademia di Belle Arti di Brera.
Gli anni trascorsi nel capoluogo meneghino sono centrali per la formazione artistica di De Minicis, alimentata non solo dagli studi e dai lavori accademici, ma anche dalle frequentazioni, dalle partecipazioni a mostre e premi, ma soprattutto dal rapporto con i professori, in particolare con Francesco Messina che era titolare della cattedra di Scultura a Brera.
Conclusi gli studi, nel 1938 De Minicis è chiamato a prestare il servizio militare a Spoleto, mentre nel 1939 viene trasferito in Piemonte. Il biennio successivo segna per l’artista non solo il ritorno nel suo paese natale, ma anche a un intenso e febbrile lavoro di scultore: così a Petriolo approfondisce un’espressione artistica tutta propria che, attraverso un modellato altamente plastico delle forme, dimostra perizia tecnica e conoscenza della tradizione italiana.
Nel 1941 ricopre l’incarico di insegnante presso la Scuola di Avviamento Professionale di Montecosaro e poi temporaneamente la cattedra di Plastica presso la Regia Scuola Professionale Maschile di Tirocinio di Macerata. Inoltre, su invito dell’artista e amico Vincenzo Monti inizia a intessere rapporti con un sodalizio di artisti marchigiani di cui fanno parte, tra gli altri, anche Attilio Alfieri, Virginio Bonifazi, Arnoldo Ciarrocchi e Giuseppe Mainini.
In quello stesso periodo, inoltre, sembra materializzarsi la possibilità di fare ritorno a Milano, dove Messina vorrebbe affidargli l’assistenza presso il Liceo Artistico di Brera, ma nel febbraio 1942 De Minicis si arruola volontario per la guerra e, dopo un periodo trascorso nel cuneese, viene destinato al fronte russo. È il 22 agosto 1942 quando muore a soli 29 anni nella Battaglia del Don, ponendosi allo scoperto per incitare il drappello di uomini che guidava.
Orari di apertura:
lunedì chiuso
dal martedì al sabato dalle 16 alle 19;
domenica e festivi dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19
Visita libera gratuita
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